Un mosaico di immagini dermoscopiche dall'archivio ISIC.
Negli ultimi anni, grazie a un particolare tipo di reti neurali profonde, chiamate convolutional neural network e particolarmente efficaci nella classificazione delle immagini, abbiamo letto sui giornali a più riprese che i dermatologi sarebbero presto stati sostituiti dagli algoritmi, almeno nei compiti di screening delle lesioni della pelle. I risultati dell’ultima competizione organizzata dall’International Skin Imaging Collaboration ridimensionano queste aspettative e richiamano all’importanza di valutare le perfomance di questi algoritmi con dati realistici prima di introdurli nella pratica clinica. Gli algoritmi sono sì più accurati della media dei dermatologi coinvolti nella sfida, ma molto meno di quello che si pensava e tranne quando incontrano lesioni che non hanno mai visto prima.
A febbraio del 2017 la copertina della rivista Nature recava il titolo “Lesions Learnt”, il messaggio che ci saremmo aspettati di leggere sullo schermo di un computer se il risultato descritto dalla prestigiosa rivista scientifica fosse diventato il soggetto di un film hollywoodiano. Un gruppo di ricercatori, informatici e dermatologi, a pagina 115 di quel numero, descriveva i risultati ottenuti da un algoritmo di machine learning nel diagnosticare nove diverse categorie di malattie della pelle, sia benigne che maligne, in circa duemila immagini acquisite con dermatoscopio. Il dermatoscopio è costituito da una lente e una sorgente di luce che può anche essere polarizzata. Viene utilizzato dopo aver applicato sulla pelle un gel, per evitare che lo strato lipidico dell’epidermide rifletta la luce. In questo modo permette di guardare fino ai primi strati del derma, aumentando notevolmente la capacità di diagnosticare lesioni maligne rispetto all’analisi a occhio nudo.
L’algoritmo, una rete neurale profonda sviluppata da Google e pre-allenata su oltre un milione di immagine generiche, era stato poi allenato per questo compito speciale su un database di 130 mila immagini e si era dimostrato più accurato nel diagnosticare i novi tipi di lesione rispetto a una ventina di dermatologi esperti. L’entusiasmo degli autori era tangibile nelle conclusioni del lavoro dove prospettavano una democratizzazione della diagnosi dermatologica. Scrivevano che “equipaggiati con reti neurali profonde, i cellulari possono estendere il raggio d’azione dei dermatologi al di fuori degli ambulatori. Si prevede che entro il 2021 esisteranno 6,3 miliardi di abbonamenti a smartphone che quindi potranno fornire un accesso universale a basso costo a diagnosi vitali.”
Nel 2020 sono stati diagnosticati nel mondo 324 mila casi di melanoma, la forma più aggressiva di tumore della pelle, e le morti associate a questa patologia nello stesso anno sono state 57 mila. L’incidenza dei melanomi è particolarmente elevata in paesi come Nuova Zelanda, Australia, Danimarca, Paesi Bassi e Norvegia. L’altra famiglia di tumori della pelle, basaliomi e carcinomi spinocellulari, sono meno aggressivi e probabilmente sottodiagnosticati perché trattabili facilmente con chirurgia e ablazione.
Alla copertina di Nature seguirono altri studi sul ruolo degli algoritmi nella diagnosi dei tumori della pelle. Per esempio, quello coordinato dal dermatologo Harald Kittler dell’ospedale universitario di Vienna e pubblicato su The Lancet Oncology a luglio del 2019. Il lavoro, che nasceva da una competizione internazionale organizzata nel 2018 dall’International Skin Imaging Collaboration, confermava la superiorità dei migliori algoritmi rispetto ai migliori dermatologi, ma introduceva una nota di cautela: “la differenza tra gli esperti umani e i primi tre algoritmi è stata significativamente inferiore per le immagini provenienti da fonti (istituzioni, ospedali, strumenti, ndr) non incluse nel database di allenamento” concludevano gli autori.
L’edizione successiva della competizione, che si è svolta nel 2019, ha voluto esplorare proprio questi aspetti. I risultati sono stati pubblicati alla fine di aprile sulla rivista The Lancet Digital Health. Al terzo posto si è qualificato un gruppo di ricercatori dell’AImageLab dell’Università di Modena e Reggio Emilia, coordinato da Costantino Grana. «È una delle sfide sull’automazione della diagnostica per immagini meglio organizzate», commenta Grana, «le immagini su cui gli algoritmi in competizione verranno testati non vengono pubblicate fino a quando tutti i gruppi non hanno consegnato i loro sistemi e questo rende la valutazione molto più robusta.» Continua a leggere su Scienza in rete
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