Il documentario Austerlitz del regista ucraino Sergei Losnitza mostra una giornata tipo di visita al campo di concentramento di Sachsenhausen, vicino a Berlino. Con il sottofondo sonoro delle voci delle guide che spiegano le torture inflitte dalle SS e dalla Gestapo, la macchina da presa fissa nascosta ad altezza d'uomo in alcuni punti chiave riprende una sfilata estiva di turisti semisvestiti; c'è chi indossa una maglietta con la frase Just don't care, chi si fa un selfie, chi fotografa la fidanzata in posa davanti ai pali a cui i prigionieri venivano impiccati, chi mangia un panino.
Il rischio di banalizzare e di conseguenza profanare il ricordo dell’Olocausto è stato denunciato anche dall’artista tedesco-israeliano Shahak Shapira nel progetto Yolocaust, che mostra ragazze e ragazzi che, in sostanza, si fanno allegramente i fatti loro all’interno del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa di Berlino, come se fossero ai giardini pubblici, e poi postano le foto sui social: nel suo progetto, l’artista ha lavorato su quelle foto, sostituendo le immagini del memoriale sullo sfondo con quelle reali dei campi di concentramento.
La banalizzazione della memoria della Shoah è in atto, ormai, da una ventina d'anni; è quindi necessaria una riflessione sulla presa che la celebrazione del 27 gennaio può ancora avere sulle giovani generazioni. Sicuramente la scuola (che raggiunge tutti gli strati sociali) avrebbe il potere di rendere significativa la ricorrenza, facendo comprendere a ragazzi e ragazze che ricordare il passato deve essere un insegnamento per emendare il futuro e una spinta a negare per sempre il consenso a chi è stato o sta con i carnefici. Lo strumento cardine della comprensione è, come sempre, la lettura.
In questa newsletter, pensata per il Giorno della Memoria, ne proponiamo in particolare tre, focalizzate su aspetti delle persecuzioni razziali e della violenza del nazismo meno ricordate.
Prima della eliminazione, la segregazione degli ebrei nei ghetti. Di cui restano, tra le altre, testimonianze nei diari di adolescenti dell’epoca. Restringendo la messa a fuoco sul ghetto di Łódź, il secondo più grande d'Europa dopo quello di Varsavia, vi sono stati scritti il diario di Abram Cytryn, morto a 17 anni (Racconti dal ghetto di Łódź. Marsilio, 2016) e quello di Rywka Lipszyc, morta a 16 anni (La memoria dei fiori. Garzanti, 2015), oltre al più noto diario di Dawid Sierakowiak, morto a 19 anni (Cinque quaderni dal ghetto di Łódź. Einaudi, 1997).
Come scrive Simonetta Pagliani, dai diari emerge la progressiva distruzione della vita umana, preceduta dalla cancellazione dei suoi aspetti affettivi, creativi e intellettuali. La disumanizzazione, che prelude sempre all'annientamento, passa per soprusi e intimidazioni, scuole chiuse e requisite, poveri beni sottratti in perquisizioni estemporanee, sussistenza centellinata.
Ricordare anche i soldati italiani deportati dopo l’armistizio. Della legge 20 luglio 2000 n. 211, Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti, è spesso trascurata la seconda parte, ricorda Simonetta Pagliani. Rimediare alla perdurante dimenticanza dei "deportati militari" è, invece, storicamente importante, perché la loro esistenza è stata numericamente rilevante e chiama in campo e appesantisce ulteriormente le responsabilità della Repubblica sociale italiana. Non appena, nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943, Radio Londra e Radio Algeri resero noto che il governo italiano guidato dal maresciallo Badoglio aveva firmato l’armistizio con gli Alleati, le truppe tedesche stanziate in Italia, nella Francia meridionale e nei Balcani, dove si trovano reparti italiani, ricevettero l’ordine di Berlino di dare immediata attuazione alle direttive del piano Achse, da tempo decise per tale eventualità: disarmo immediato e cattura con internamento, fino a decisioni ulteriori, di ufficiali o soldati che non si fossero dichiarati immediatamente disponibili a continuare a combattere al fianco dell'esercito tedesco; sequestro di tutti gli automezzi di cui gli italiani disponevano e dei loro depositi di munizioni, di carburante e di viveri. Nell’arco di pochi giorni in Italia e Francia meridionale e di circa tre settimane nei Balcani, i reparti della Wehrmacht disarmarono oltre un milione di militari italiani.
C’è anche una memoria perduta: quella delle persecuzione di donne lesbiche e transgender nella Germania nazista. La persecuzione delle persone omosessuali da parte dei nazisti è spesso associata alle vicende degli uomini gay, in larga parte a causa dell’applicazione del famigerato Paragrafo 175 del Codice Penale Tedesco. Questa norma, che criminalizzava in modo esplicito i rapporti tra uomini, divenne ancora più repressiva nel 1935 e determinò la deportazione di migliaia di uomini, marchiati dai noti triangoli rosa, nei campi di concentramento. Ma cosa accadde alle donne lesbiche e alle donne transgender?
La loro storia è rimasta a lungo nell’ombra. Eppure la scena lesbica della Repubblica di Weimar era vivace: fiorivano, soprattutto nelle grandi città, locali e giornali dedicati, e perfino i primi movimenti attivisti. Furono anche gli anni che videro la nascita dell’Istituto per le scienze sessuali di Berlino, luogo che coniugava la ricerca con attività di supporto e consulenza fondato da Magnus Hirschfeld, medico pioniere degli interventi di cambio di genere.
Nella visione patriarcale del regime nazista, però, le donne erano considerate un elemento subordinato della società, il cui fine era solo la maternità, non degne di attenzione: ne conseguì che si trascurò di emanare specifiche leggi o politiche che proibissero le relazioni omosessuali femminili.
Questo non significò, comunque, una maggiore libertà. La persecuzione assunse forme diverse, ma ugualmente devastanti, come la perdita del lavoro, l’emarginazione sociale e, in alcuni casi, la deportazione con altre motivazioni, come “asocialità” o dissidenza politica. Alcuni scarni documenti raccontano come l’omosessualità femminile potesse risultare un’aggravante per gli arresti e le deportazioni: brevi note a margine dei fogli d’ingresso nei campi, frammenti di testimonianze giuntici dai processi. Recuperare queste storie è stato un processo lento e complesso. La memoria delle donne lesbiche e transgender perseguitate dal nazismo è rimasta a lungo frammentaria, ricostruita solo grazie al paziente lavoro di ricerca di studiosi e attivisti che hanno cercato di riportare alla luce le loro vite.
In occasione del Giorno della Memoria 2025, la mostra Mein Liebes. Storie di donne lesbiche e transgender nella Germania nazista ridà la voce a queste donne cancellate dalla memoria ufficiale. La mostra, curata da Delfina Tromboni in collaborazione con Arcigay – Associazione LGBTQIA+ italiana, Arcigay Ferrara Gli Occhiali d'Oro e Arcigay Rete Donne Transfemminista, è esposta a Genova dal 27 al 30 gennaio presso il Centro Civico Buranello (in collaborazione con ANPI Sampierdarena) e il 1° febbraio presso la sede di Arcigay Genova in via del Lagaccio 92R, dalle 15:00 alle 19:00; è inoltre in fase di allestimento nelle città di Savona, Trento, Pisa, Ferrara, Taranto e Modena (consultare i canali Arcigay locali per maggiori informazioni).
Oggi, mentre assistiamo a nuove ondate di intolleranza e discriminazione – dalle dichiarazioni apertamente trans- e omofobiche di Donald Trump negli Stati Uniti alla crescente ostilità verso le persone LGBTQIA+ in vari contesti europei, Italia compresa - la mostra è l’opportunità per riflettere su un capitolo dimenticato della storia e per riconoscere le vittime di una repressione meno documentata, ma non meno crudele.
La banalizzazione oramai copre molti eventi, non solo la Shoah. Lo vediamo ogni giorno. Forse la forte spinta all'individualismo è una causa.
Credo che ci dobbiamo rendere conto della frase più volte ripetuta dai sopravvissuti in questi giorni: "Se è successo, può succedere di nuovo". Questo scenario non solo è realistico, ma anche probabile e l`equiparazione della guerra di Gaza con il genocidio della seconda guerra mondiale, sono il sintomo di un odio razzista mai del tutto sopito.
Dico genocidio, quello del campo di Auschwitz, e non dei nazisti o peggio dei tedeschi, perché l'idea dello sterminio è insita nell'essere umano, in ognuno di noi; repressa, contenuta, negata spesso, ma presente. Per questo penso sia tempo di assolvere la stragrande maggioranza del popolo tedesco, per assumere su ognuno di noi quella colpa e quella macchia indelebile. Anzi la stragrande maggioranza delle ragazze e ragazzi tedeschi che ho incontrato in giro per il mondo sono vittime degli orrori di quei soldati. Loro sono più consapevoli e più scottati di chi non ha fatto i conti con quel passato. E oggi oltretutto vedono riemergere quella vergogna tra di loro, dopo aver passato decenni a ripudiare quella macchia. Se è successo, può succedere di nuovo ad ognuno di noi. Come diceva De Andrè, siamo tutti coinvolti.